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Un nuovo studio guidato da Unimore, in collaborazione con l’Università di Firenze, Padova e con il Museo di Storia Naturale di Stoccarda, appena pubblicato sulla rivista internazionale Palaios, ha descritto in dettaglio una misteriosa associazione fossile di due grandi predatori marini: uno squalo e un ittiosauro dal Cretaceo dell’Appennino settentrionale.

Nel 2019, il Dr. Riccardo Rondelli di Unimore ritrovò presso Castagneto di Pavullo (Pavullo nel Frignano), alcune vertebre fossili di forma discoidale provenienti da un affioramento di argille varicolori. I reperti, trovati tutti nella stessa posizione e a pochi centimetri di distanza, furono inizialmente attribuiti a un unico esemplare di ittiosauro, grande gruppo di rettili marini del Mesozoico estremamente adattati alla vita acquatica e superficialmente simili a squali e delfini.

Uno studio più approfondito, portato avanti dal Dr. Giovanni Serafini, dal Prof. Cesare Andrea Papazzoni e dal Dr. Riccardo Rondelli di Unimore, insieme alla Prof.ssa Silvia Danise dell’Università di Firenze, al Dr. Jacopo Amalfitano dell’Università di Padova e alla Dott.ssa Erin Maxwell del Museo statale di Storia Naturale di Stoccarda, ha rivelato qualcosa di inatteso: il ritrovamento di Castagneto di Pavullo è composto sia da vertebre di ittiosauro (sette elementi isolati) che di squalo (il blocco di otto elementi articolati).

Lo squalo può essere attribuito alla famiglia Anacoracidae, un ramo estinto dell’ordine dei lamniformi (di cui molti rappresentanti tuttora popolano i nostri oceani); le dimensioni dell’esemplare sono state stimate intorno ai 4 metri di lunghezza. Piccole gallerie nel sedimento sono state osservate accanto ai resti dello squalo, probabilmente prodotte da invertebrati marini attirati dalla decomposizione della carcassa sul fondale.

L’ittiosauro (genere e famiglia indeterminati) è stato invece stimato che potesse raggiungere i 6 metri in lunghezza. Nel tessuto osseo dell’ittiosauro si possono osservare agglomerati di pirite, un minerale che, quando localizzato nelle ossa, può essere indice di particolari attività microbiche che coinvolgono lo zolfo durante la decomposizione di una grande carcassa.

L’analisi della matrice di entrambi gli esemplari ha confermato che si sono fossilizzati nel medesimo ambiente, una piana abissale caratterizzata dalla deposizione di particolari composti polimetallici (manganese e ferro).

La presenza dei resti di questi due predatori così strettamente associati è molto inusuale, soprattutto per l’Appennino settentrionale, in cui fossili di vertebrati sono piuttosto rari

Diverse ipotesi sono state avanzate per giustificare la vicinanza dei due animali, da una semplice associazione casuale ad una possibile interazione ecologica tra i due predatori (predazione o alimentazione di uno dei due sulla carcassa dell’altro seguita dalla morte dello stesso), ma nessuna risposta definitiva può essere raggiunta.

 


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